lunedì 17 agosto 2015

Episodio LVIII "La vita di Ester"


Ester era felicissima di partire e di ritornare finalmente a Napoli dopo quasi cinque anni di assenza, ma soprattutto era felice di rivedere suo figlio Daniel; l’ultima volta lo aveva visto l’anno precedente, in estate, quando lui l’aveva raggiunta a Taormina per un week end al mare prima di cominciare gli esami di Stato che l’avrebbero sicuramente tenuto occupatissimo. Si guardò un’ultima volta nel grande antico specchio che teneva nella camera da letto, i suoi riccioloni neri come ebano erano un po’ troppo ribelli, così si avvolse un grande foulard verde sulla testa a mo di fascia, lasciandolo ricadere sulla spalla, ora era davvero perfetta. Si voltò verso il grande letto matrimoniale di legno massiccio stile arte povera e, fissando con le mani sui fianchi le due grandi valigie poggiatevi sopra, fece mente locale per capire se avesse dimenticato qualcosa. Poi si avvicinò lentamente e accarezzò con le dita i due grossi bagagli di pelle consumata, li accarezzò delicatamente, come fossero due bambini…adorava quelle valigie, aveva con loro un legame estremamente particolare. Gliele aveva regalate la sua nonna quasi più di trent’anni prima, quando lei, ragazzina, senza una Lira dovette andar via di casa e trasferirsi da un piccolo paesino di tremila anime in provincia di Messina nella grande città di Napoli con il suo bambino. Aveva solo diciannove anni quando diede alla luce il suo unico figlio, il fidanzato di allora non ne volle sapere di diventar padre, fece perdere le sue tracce e i genitori le diedero nove mesi di tempo per trovarsi una sistemazione e un lavoro altrove, una figlia disonorata nella Sicilia dell’epoca non la voleva nessuno, sarebbe stata una vergogna troppo grande. Fu così che trovò lavoro come sarta in una boutique del capoluogo campano. Guardando le valigie le venne in mente il giorno in cui salì su quella nave, con quel pargoletto di soli due mesi dagli occhi blu. Solo sua nonna Rosalia pianse per lei, la tenne con sé durante la gestazione e la pregò di restare, ma Ester non volle, non voleva che un’anziana vedova con una misera pensione si occupasse di loro e soprattutto non voleva metterla contro suo figlio. Così si affacciò dalla nave con quei due bauoli accanto a lei e quella carrozzina ingrigita prestatole dalla cara amica Carmelina; ripensando a quei momenti, fu assalita dal ricordo della sensazione di vuoto che provò allora, nel vedere la sua isola allontanarsi, la sua casa, il suo sole, il suo mare. A Napoli fu accolta calorosamente da tutti sul posto di lavoro. La proprietaria della boutique, Donna Antonietta Del Giudice, signora della Napoli bene, era davvero una gran signora, soprattutto nell’animo: vista la sua situazione le diede da subito il permesso di tenere il piccolo Daniel in sartoria nelle ore lavorative e le trovò una mansarda in cui poter stare, un luogo piccolo e modesto, ma decente e pulito. In poco tempo Napoli divenne la sua patria, e diventò il luogo dove decise di far crescere suo figlio. Le vennero le lacrime agli occhi ripensando a quei momenti, soprattutto ripensando a Donna Antonietta…erano già cinque anni che se n’era andata ed Ester non aveva mai superato quel lutto, l’aveva presa sotto la sua ala, l’aveva protetta, l’aveva messa in guardia e non era tenuta a farlo. Lei, una donna di alto rango, ricca, benestante, perché l’aveva sempre aiutata, senza chiedere mai nulla in cambio? Ebbe il coraggio di farle questa domanda solo quando era sul letto di morte, trent’anni dopo che si erano conosciute. Tenendole la mano, con grande rispetto e devozione le chiese “Perché hai fatto tutto questo per me?” e lei, che era una donna intrisa della sottile ironia napoletana, le rispose citando il grande Totò e con un filo di voce, sorridendole con un po di sforzo le disse “perché signori si nasce e io, modestamente, lo nacqui”. Furono queste le ultime parole che si dissero,  ridacchiando.  Ester pensando a lei non riuscì a trattenere le lacrime, che le scivolarono lente sulle guance, e capì che la cosa che le faceva più male era aver pianto più per Antonietta che per sua madre Angelina, e le faceva ancora più male di essere stata aiutata da una sconosciuta e non dal sangue del suo sangue. Non fece mai conoscere a Daniel i suoi nonni e non se n’era mai pentita, suo figlio vide la Sicilia solo a quindici anni, quando i nonni erano ormai morti e quando fu abbastanza grande per conoscere tutta la verità, dall’inizio. Daniel era sempre stato un bambino sensibile, non le aveva mai dato alcun problema ed era sicura che fosse stato un dono per lei, arrivatole da chissà dove e per chissà quale motivo. Lei, dal canto suo, era stata una madre stravagante, lo aveva cresciuto insegnandogli principalmente due valori: l’amore universale e la libertà. Gli aveva insegnato il rispetto e l’amore per la natura e per il mondo, la libertà dagli schemi, dalle religioni, dalle credenze e dalle superstizioni, lei voleva che crescesse completamente lontano dalla realtà da cui lei proveniva, voleva tenerlo distante dalla mentalità chiusa e retrogada da cui era scappata via, da quel mondo intriso di bigottismo e timor di Dio, dove vigevano solo le leggi dell’Onore e della Vergogna. Lavorò nella boutique di Donna Antonietta per sedici anni, poi rilevò una piccolo negozio di gioielli di antiquariato, nel magnifico borgo degli Orefici a Napoli e arrotondava le entrate con la sua attività di cartomanzia, che riservava però solo agli amici più cari. Da quando si era trasferita si era velocemente avvicinata all’esoterismo e a molte dottrine orientali, sentiva che il mondo della spiritualità interiore ed ultraterrena era più vicino a lei di quanto potesse esserlo quello della chiesa e della religione, che le andava troppo stretto da sempre. Da lì la sua vita cominciò davvero a cambiare in meglio, la sua condizione economica migliorò decisamente, Daniel cresceva bene e sereno. Aveva avuto i suoi amori, era sempre stata una donna bellissima e fascinosa, ma aveva sempre deciso di non impegnarsi sentimentalmente, e forse col senno di poi un po’ se ne pentiva, perché aveva negato a Daniel una figura paterna. Ma semplicemente, in gioventù non era mai riuscita a trovare l’uomo giusto… l’amore della sua vita l’aveva incontrato solo da sei anni, poco dopo essere ritornata in Sicilia, in età ormai abbastanza matura. Proprio in quel momento, mentre ripensava a tutte queste cose, Assàn, il suo compagno, entrò nella loro stanza “Cosa c’è Ter? Sei triste di partire?” Ester gli si avvicinò e alzandosi un pò sulle punte gli prese il viso tra le mani “No amore mio, stavo solo ricordando delle cose passate…ma sei sicuro di non voler venire?” Assàn ribadì di non voler partire, Ester aveva provato più volte a convincerlo, ma lui si sentiva un po’ a disagio, nonostante gli avesse assicurato più volte che stavano insieme ormai da sei anni e che anche Daniel lo considerava parte della famiglia. “Resterò qua” le disse “Aprirò il negozio e mi occuperò di Dea, Yoga e Kashmire, so che ci tieni tanto amore mio. E poi devo prendermi cura delle tue rose, delle ortensie, e le bocche di leone, e poi stanno spuntando nuovi boccioli, dovrò vegliarli perché crescano bene e diventano belli come te”. Ester gli sorrise, era un uomo magnifico, si sentiva perdutamente innamorata. Nonostante lei avesse ormai più di cinquant’anni e lui solo trenta, la differenza d’età non era mai stato un problema, vivevano insieme già da cinque anni ed erano molto legati ed estremamente affiatati. Assàn era arrivato in Sicilia dieci anni prima immigrato dall’Etiopia per cercare un lavoro. Si era arrangiato facendo il muratore e i pochi soldi che guadagnava li inviava alla madre rimasta ormai vedova e alle quattro sorelle che erano con lei, lui era l’unico uomo della famiglia e doveva provvedere a loro, diceva, così a fine mese rimaneva con pochissimi soldi per sé. Ester lo aveva conosciuto a Taormina, lui era entrato nel suo negozio di antiquariato , ed era rimasto incantato a guardare una tela del 1914 che ritraeva un magnifico paesaggio africano al tramonto. Lei osservò questo ragazzone di quasi due metri, sporco di calce ed impolverato, commuoversi senza tuttavia distogliere lo sguardo. Ester rimase folgorata da quell’immagine, così gli si avvicinò e gli pose una mano sulla spalla, e lui, sobbalzando, si giustificò in un italiano stentato scusandosi con lei per essere entrato tutto sporco, le disse di sentirsi desolato per averle sporcato il pavimento di polvere e le chiese uno straccio per poterla togliere via. In quel momento le venne un colpo al cuore, lo tranquillizzò e lui dal suo sorriso incantevole capì subito che era una donna speciale. “Vieni dall’Africa?” gli chiese “Si, signora” le rispose abbassando il capo. Lei tornò a mettergli la mano sulla spalla, come aveva fatto poco prima “Non ci sono mai stata, ma dicono che il sole africano resta nel cuore e che non si può ammirare da nessun’altra parte un tramonto così…” “Sì, signora”, rispose nuovamente. “Puoi prenderlo, se ti piace…te lo regalo con piacere” gli disse, indicando il quadro “oh no” le rispose imbarazzato “io vorrei pagarlo, ma non posso. La ringrazio ugualmente”.  Dopo pochi minuti si ritrovarono entrambi seduti sul marciapiede fuori il negozio a parlare delle loro vite, in poco tempo si raccontarono di tutto, si attraversarono e si innamorarono delicatamente l’uno dell’altro. Di Assàn la colpirono i modi gentili, l’educazione, la sua dolcezza e i suoi grandi occhi color oliva; lui, invece, vide in lei una grande forza vulcanica, le sembrò una donna bellissima, anche se non ebbe subito il coraggio di dirglielo. I giorni seguenti lui passò spesso al negozio dopo il lavoro, Ester gli preparava squisite tisane allo zenzero, gli leggeva la mano e ascoltava le storie della sua famiglia. Nacque subito una storia travolgente, in poco tempo lei lo accolse in casa sua e lo assunse come collaboratore al negozio, inoltre era un ottimo giardiniere e condivideva con lei la passione per i fiori. Gli insegnò a scrivere  e a leggere l’italiano, gli leggeva i suoi romanzi preferiti la sera e gli insegnò le più belle filosofie e dottrine orientali, che lei amava tanto. Ogni mese era lei ad inviare dei soldi alla sua famiglia, molti più di quelli che lui avrebbe potuto mandargli, ma Ester lo faceva soprattutto per amore e perché sentiva che la famiglia di Assàn era anche un po la sua, rivedeva se stessa in quella donna etiope che, da sola, tirava su dei figli. Le sorelle di Assàn,  dopo quattro anni riuscirono a racimolare soldi e a trasferirsi per lavorare nella capitale Addis Abeba, e cominciarono a condurre una vita più dignitosa. Chiesero più volte al fratello di ritornare a casa ora che le cose stavano andando bene, ma Assàn decise di restare a Taormina con Ester. Fu in quel momento che Ester cominciò a chiedersi se davvero Assàn non volesse ritornare dalla sua famiglia; cominciò a pensare che forse lui aveva deciso di restare con lei solo perché si sentiva in debito ed era per questo che aveva rifiutato di tornare a casa. Così, una sera, si sedette accanto a lui in giardino, sul prato, e guardandolo negli occhi gli disse che se fosse stato felice di stare con sua madre e le sue sorelle lei lo avrebbe compreso, gli disse che la sua felicità per lei era fondamentale e che non le doveva niente, che tutto quello che aveva fatto per lui e per la sua famiglia le era venuto dal cuore, lui non era costretto a restare legato a lei per darle qualcosa in cambio. Assàn le rispose pacatamente, con il suo solito tono delicato e sincero “Lo so che vuoi la mia felicità, so che sei buona. Ma io non voglio restare qui perché mi sento in debito, voglio restare con te perché provo per te più amore che gratitudine”. Fu in quel preciso istante che Ester capì di aver trovato l’uomo giusto. Per tutta la vita si era spesa per gli altri, ricevendo in cambio solo gratitudine e mai amore, Assàn invece le stava offrendo quello che aveva sempre cercato, amore incondizionato. Diede un ultimo saluto ai suoi tre cagnolini meticci raccomandando loro di dare ascolto al papà e prese l’autobus che la diresse al porto dove l’attendeva la nave in direzione Napoli.

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